DIARIO ENIGMATICO

Monterrey, 4 settembre 2009 

Ancora una poesia che si legge da sola
e che si immedesima lontano, con la mano
pesante e allargata, come su di una
tastiera melodiosa e solenne, un ardito
meccanismo innocente e colorato, usuale
espressione di tanto sudare, contento di
stare qui, seduto e silente.

Ma è l’ascolto di noi che più mi piace,
è l’arrivare domani, avvolto tra le tue
braccia, che mi scompone l’anima e fa
risaltare in me il cuore grande e
piccolo, la collera dimenticata, il medesimo
istinto un po’ infelice e leggero, come
di chi si intromette forte e selvaggio.

Un canto che si inalbera tra numerose
vetrine, i gruppi irregolari, mistici e
immensi, le ragazze domani saranno
più limpide e lucide, le loro
armonie solide ed esperte, come 
le allegre semicrome che rapide colorano
il nostro tappeto di fiori, ove collocheremo
ancora fiori e odori, i nostri veri profumi. 


Monterrey, 5 settembre 2009

Una musica che si colora all’istante,
un diario aperto che si scrive da solo,
e una metafora costruita da mani vere
e solidali, una memoria intatta da anni.

Cosa volere ormai da tanta illusione
che si incatena da sola, scaldando il 
motore che si fa veloce e radiante.
Sempre giallo il sonetto messo da parte.

Il violino che ascolto mi fa male e
persino dimentico distratto da tutto il
resto che si sfascia e corrompe da solo.

Sicurezza assoluta non esiste, la voglia
incredibile di farla finita e d’accorciare
distanze sempre fragili, una luna a colazione.


Monterrey, 6 settembre 2009, ore 23

Un sonetto notturno questa volta 
ad incantare il cuore assommato
per tanto sognare il volto fresco
e del lieto vagare, tra luoghi e
laghi, la fantasia sottile le mie
idee, le grandi crome che stagliano
tra mari e montagne di suoni, il 
gesto intinto di noi e del nostro 
sentire: il guanto che ricerca calore
tra la guancia e il soldato, le
energie stracariche che si dondolano:
sottile cromia questo grande mare,
questo imbrunire inconsueto sbiancare
di vergogna all’insolito fantasma
che si nasconde tra noi e il fiume.
Ogni frase isolata e senza memoria
traduce il gioco di lettere e numeri.
La poesia sta dentro di noi col
cuore intrappolato, un bisogno impellente
di sacrificarci il corpo, immune da
tanta insonnia e girovagare stanco 
e umiliato. Il ventre piatto che
si ammira da solo, e l’improvvisazione
suprema che è questo scritto solo 
e sincero: un nuovo paradigma!


Monterrey, 7 settembre 2009, notte fonda

Notte fonda, fonda la sua notte
al risveglio il colore giallo, porpora
la linfa che si accompagna al gesto
stupefatto e stanco di tanto dormire.

Un calendario di atti rigorosamente
previsti in tutta l’immaginazione:
la possibilità che si possa fare un 
ulteriore sogno in questo pianeta.

Lo scritto che impallidisce senza
più frontiera o cataclisma: l’automatismo
di questa scrittura spaventata ed altera,
solenne e giusta la frase intatta.

Una paginetta non ti cambierà la
vita, non altererà il minimo equilibrio
né se ne farà una ragione la
scala in alto che ti vede e geme.

Un gioco ancora, tra le lingue
calde e le giornate interrotte da tanta
limpida messicana primavera che si
inarca con tutta probabile serietà. 


Monterrey, 8 settembre 2009

Bambolina di colore, trecce di seta
sangue limone, con tanta linfa
e fervore evidente o nascosto.

Il suono della corda che si abbatte
e allontana frequenze, che di lassù
odorano d’erba e di gioiose lire.

Un crisantemo bicolore, la strofa che
si arma da sola impoverisce e
trascolora l’immagine, trasparente

già da sé che la potenza di grazia
se questa è amicizia, il dito è
già dentro la piaga che si nutre di sé. 

La lettera è arrivata, il diario eppure
si riempie da solo di scritti ed enigmi
una volta incarnati da dolci odissee.


Monterrey, 9 settembre 2009

Cabalistica sensazione di mistero che concede
questo saggio asciutto e levigato, che dal
dolore porta all’attesa di una ragione, di
un notorio interrogativo: come mai questo
scomparire ed il silenzio che ci si porta
dietro nonostante tutto questo amore.

E la dedizione? L’incolonnare di continuo
il gesto beffardo e spettatore di una così
solida utopia? L’afferrare indomito il
sintomatico fluire solido di questo stratagemma
e la simpatica uniforme che di te mi
porto dietro, tappando le vergogne informi.

Aspetto un altro po’, certo. Ma fino a quando
registrerò così sfasciato e fino a dove rimarrò
domani se la pazienza sfinisce i giorni
e le immemorabili canzoni, le esagerate
punte di diamante che si calmano da
sole, che s’improvvisano morte e fatali?

Mi rilasso così, lo vedi? Mi trascino la
notte dove non dovrei, la limitazione
fornisce l’alibi a chi non dovrebbe
minimamente indovinare l’anima che si
cela dietro tutto questo sentire. Non si
può certo attendere all’infinito. 


Monterrey, 10 settembre 2009

Una pagina, e tutto il resto dorme
quando si è in pace e in armonia
con il mondo e con le cose.

L’averti accarezzato, anche se a distanza,
ci ha fatto onore, ci ha dissolti in
un soave oblio fatto d’amore e armonia.

E allora una carezza ancora e tanto
lume che si libera da noi e per noi.
La luna che si ascolta sola e pallida.

Non potremmo neppure ritirarci,
come altrimenti faremmo d’altre parti,
con l’incantesimo in agguato…

Adesso a dormire, la notte lenta
vuole il suo silenzio, le dita stanche,
la pace che non ha posseduto altrove. 

E la matita che traccia le isole tra
i disegni e simmetrie, si colora con
il vento e le sue melodie. 


Monterrey, 11 settembre 2009

Una mattina piena di te, l’ombra
proiettava da tanta meraviglia
che si piace da sola perché di grande
linea tracciata dal solco, ne diviene
immagine ed emblema.

Oggi mi intenerisco e mi allento,
ne dovrò fare ammenda a chi mi
tiene l’anima in balia del sole e
del mancato silenzio quaggiù preciso.
Ne vorresti ancora del mio veleno?

Fissare la musica su pentagramma
vuol dire incatenarsi e farsi male,
serena decisione di non volersi
più fasciare le ferite con pochi
mezzi e tante idee.


San Nicolás de los Garza, 12 settembre 2009, ore 1:00
  
Non scriverò molto su questo foglio dorato,
non verserò più il dollaro facile alle stelle
abbandonate e silenti nella notte più lunga
di tutte le primavere assolate in questa 
stagione colorata infinitamente lontana da noi.

La simmetria facile che si perdeva nella
linea infiammata all’orizzonte, non ci ha
permesso di volgere indietro il nostro sguardo,
per recuperare la bicicletta smarrita in
Inghilterra in quell’anno distante dal
sole, dal solo intoppo che ci faceva sognare.

Dunque è meglio chiudere adesso, non vorrei
più fantasticare e proiettare disegni
incompiuti e piani di viaggio e avventure
che sono solo aria e i continenti poveri
da tanta fame di regole e giustizie. 


San Nicolás de los Garza, 13 settembre 2009, tardi 

Stanchezza felice! Di chi scrive e trasforma
il giorno in oasi di pace e tempo.
Ed il mio diario intinge fragole col
sapore prelibato di un incanto, che si
dice serio e pacato. Ma è proprio da qui
che si decide il futuro del nostro amore.

Tu intanto colori, io verso grammi di
cupidigia e frastorni, suoni di volatili e
lillipuziani imberbi. La notte ancora ci
guida e divora: è sempre da qui che
si decide chi e dove farà tutto il resto,
le dita agili e nervose che son parte di me.

Terminando di sfasciare la colonna
senz’occhi tristi e flebili, ti avviso, illustre
e generoso ospite del mio cuore. Ricordati
che questo diario è solo una metafora dell’
improvvisazione della nostra vera vita,
del nostro vero concludere il dolce sogno.


14 settembre 2009, già: di mattina presto
  
Colpi di tamburo i nostri cuori, un po’
di disillusione mista ad attesa per
un giorno diverso, il mio corpo che cambia
e che non piace più, la voglia di
vedermi diverso ed accettabile, il fiore
deciso che non si vergogna di sé stesso,
il sentiero che si accarezza da solo, per vie
traverse e nostalgiche virtù, il limbo in
cui si trova, tra le sinapsi a colori e
le ricercate frasi che tesseva come teli
e panni da sgualcire nel tempo che restava. 

Questa non è la solita poesia, né la
fatidica verità: l’oggetto senza forma
lo disegna integro e sfaccettato in
mille piccoli arcobaleni, tra la fantasia
selvaggia che ci sovrasta e l’infinito
mondo che ci unisce come in una canzone,
le cui strofe allegre e strette si
prendono per mano e si dicono poesie!
Un rigo ancora illustre che si batte
per farsi poesia, questa sì che è spirito 
selvaggio, senza l’incanto lassù condizionato. 


San Nicolás de los Garza, 14 settembre 2009 (ancora per qualche ora)

Lo stesso giorno, preciso, esatto, che
arriva un anno, due anni, tre anni fa,
con la stessa inquietante regolarità.
Triste e misteriosa.

I tradimenti, le dimenticanze, le
parole dette, le promesse deluse, la
dimensione tracciata e sublimata da
altre idee e progetti.

Ma tu ci sei sempre, anche se non ci 
sei, la sua presenza forte e selvaggia,
senza odori o sapori ambigui: o sei
lì, o non ci sei!

Oggi sono stanco, ed è con questo che
mi congedo: ho bisogno di dormire,
ed ancora una volta immaginarti
con l’integrità e la durezza di sempre.

Adesso mi si illumina la mente,
voglio dormire bene, svegliarmi presto
desiderandoti, e cancellando i turbamenti
che mi si dicono austeri e innocenti. 


15 settembre 2009, il grido!

Grido di addio e benvenuto,
di soglia, di graffito, di cappello che
si presenta di fronte e si dilegua, la
comunicazione tra noi si garantisce severa
e fluida, una catena di cuori, una
selva di odori ed il mistero ancora
una volta bianco e doloroso, per chi come noi
si gioca tutta la vita in amore e verità.

È solo attrazione del contenitore, l’involucro
che si cambia e poi si butta dall’alto di 
un balcone che vuole riscattare la proprietà
di un gesto arcuato e nero, un lutto
simbolico che si autodefinisce pronto
per tutto il resto indicibile, la pronuncia
di lato, perché si smarrisca il senso delle cose.

Come abbia potuto fare questo, o forse lo so.
È nella lontananza che il bisogno si fa
più grande e vero, è attraverso l’assenza
che si scatena l’ira e l’era di una
sete che vuole solo bere. Ma non ci
sarò, sospendo il senso delle cose smarrite. 


San Nicolás de los Garza, 16 settembre 2009, a casa
  
Poco a poco, scrivendo le mie gesta
ed i miei gesti mi leggo e autocritico:
se la forma renderà giustizia a questa
vita, allora da tempo avrei dovuto fare
il gioco del simpatico odore: chi più
ne ha, meno si concentra con una
mano alla volta, meno troverà una
scusa per disobbedire all’ordine naturale
del nostro intelletto.

Aria che gira e gira, in questa stanza
di parole, in questa stanza di mobili
e mobili frasi che si compongono da sole
come solo la poesia è capace di fare.
L’evocazione del giusto dilemma questa
volta non ci separa, semmai ci 
rende grande il sogno e ce lo disegna
in pareti giuste e degne di forme e colori.


16 settembre 2009, di notte

Appena tornato da un viaggio in quattro,
con flauto, chitarra e percussioni, la volta
che si configurava altera e ben piantata
adesso si dice sola e abbandonata al 
destino che di noi voleva solo sapere
cosa e perché si può onorare ad oltranza.
Ed oltre, improvvisando ancora il
gesto e la parola, le punte del diamante
che non hanno più bisogno di pensare,
non guidano più di notte, né di
loro nessuno dice nulla, la pausa è 
così forte e vera, che non sarebbe 
l’unico movimento a farsi di lato
per decifrare il dorso e togliersi una
volta per tutte il chiostro come dilemma
o sanguinario protocollo di meduse.


17 settembre 2009, di notte

È un’attesa lunga, questa. Che si paga 
di notte, da soli, col sole accasciato e le
stelle che ti guardano solenni e sperando
che passi rapidamente l’uragano emotivo
che le ha generate cinque anni fa. 

È l’ora di consacrare l’amore al
tempo, che scorre tra sé e l’attesa ancora
che le disveli il senso delle cose e della 
casa senza la sua presenza. Ancora per
poco quest’agonia.

È giusto illudere l’entusiasmo nel
conoscere e gestire tutto questo amore?
Non si potrebbe certo giurare per troppo
tempo ancora di mantenersi lontani da
minacce e tante probabili avventure.

È che l’istinto non è rigoroso, non si
promette a sé stesso inalterato, né si
consente una tregua capace di svelare
la geometria nascosta del nostro comunicare
superbo e potente. 


Monterrey, 26 settembre 2009, ore 21:50, a casa
  
È attraverso questo scritto io che mi
sono avvelenato il dorso, sospetto di un
inguaribile rimorso, sentinella di una miriade
di scheletri, ammazzati l’uno sull’altro.
Come una calligrafia stanca e ribelle, io
mi accascio lontano e con l’ascolto pronto
a fare a pezzi una gabbia mal costruita.
Fantasie delle parole, immaginazione
infinita per questo turpiloquio a tre,
dove i miei pensieri sovrastano il senso
di questa fantomatica tribù: è la musica
che si ammanta di giallo porpora e
d’assonnata melodia. Il rivolo che si
riproduce gemendo, fagocitando elementi
di una ricca tradizione: la via che non 
si incontra, l’albero che ribelle lo si
vuole più alto e più bello di prima. 
È proprio adesso che sorge il piedistallo
col gambo più forte mai visto.
Le combinazioni sono tante, ma così il
simulacro non si chiude le pareti addosso:
è solo la memoria che ne disperde le
gesta: è sola la sua musica potente
che ne scolora i confini, sovrastando su
tutto il resto.
Mi vorrei allontanare da questo bizzarro
compromesso: ma non ci provo, ne subisco
l’innominabile fascino d’Oriente, ne
accarezzo i contorni lucidandomi le
dita e avvolgendomi addosso un manto
dorato, camuffato da bianche sinestesie.
Sono dubbioso, lo so. E silenzioso, una
luna iridescente mi accompagna per
tutto il cammino, incoronato e scaltro.
Non ne immagino nemmeno il 
gonfiore che si prospettava grande
e rosso: adesso tocca a te, bisogna 
fasciare le ferite e ricominciare
d’accapo: la lingua italiana è 
l’ancella di tutte le splendide
espressioni occultate da secoli.
Ed ancora io e solo io, con questo poema
infinito, solenne e gerarchico, anche quando
i pesi e le misure non vogliono svelare
le nostre geografie e simmetrie. Non
sono da solo, lo so, ma è per te tutto 
il linguaggio che mi permetto di sviscerare.
Da fare sfogliare questo emblema magnifico,
ispira altri poemi ed altre idee: tutto
l’opposto delle mie proverbiali balbuzie,
la voglia di recuperare attraverso il
tempo le eterni pause che hanno lacerato
il mio passato. E allora si dovrà 
leggere fino in fondo questo strano 
documento, lo si dovrà fare proprio,
anche se in una maniera aggressiva
e solitaria. Tu che mi ascolti, dovrai
fare mente locale su questa voraginosa
e sintetica geometria di grande
e fantastica saliva, una parola segreta
che manterrò per anni sotto il letto,
il mio letto messicano, la mia
ombra e tetto immaginario.