WRITINGS



DANAUS 
Monterrey, ottobre 2018

O Mariposa, Mariposa monarca, dov’eri quando l’angustia si impossessava di me tra i cieli vaniglia e l’odore di cannella che a Morelia giungeva alla stessa ora di quei pomeriggi dorati e infiniti? 

Dov’eri quando attendevo l’amore da lontano, quando osservavo ogni suo gesto e ascoltavo attento ogni sua parola? Eppure, io ti sognavo e intravedevo tra i prati selvaggi e le colline annerite dalle mie lacrime asciutte per averti perso e poi ritrovato, per averti permesso di sfregiare il mio tenue biancore che sapeva infiltrarsi violento tra le pieghe dei miei sogni e follie. 

O Mariposa, ultima mariposa di quel tempo disperso, che come brezza leggera di vento hai saputo trascinare tra i percorsi invisibili di quei passi interiori lanciandomi dentro gli uragani e le tormente infiorite dai tuoi suoni inaudibili, questa notte ti ricordo e ricerco tra le forti memorie di quell’ultimo abbraccio, tra le fonti inespresse di quel bacio nascosto. 

O Mariposa, essere grandioso tra danze asimmetriche e teatro glorioso, che sai di mistero e di suoni visivi, che appari e scompari come vita imbrigliata tra alberi e foglie di luce sottile tra le luci sinistre che affetto e dolore hanno gridato per me, ti ricordo volare tra le piazze minori e le strade ingiallite di una immensa Morelia, riseguo i tuoi viaggi tra le nostre avventure e i sincronici orgasmi, tra i perché senza tempo e i ricordi sublimi. Vola in alto, silenzioso amore, vola almeno per l’ultima volta e fuggi pure da me, piccolo insetto, piccolo mondo lontano pure da te. 

O Mariposa, Mariposa monarca, cosa avrai mai fatto durante tutti questi anni? Sei forse morta appassita tra verdi e pianure, o rinata da qualche altra parte sopra gocce di fiumi e porzioni di laghi in cui specchi e riflessi spingeranno il tuo cuore verso il nulla celeste? 

Ridammi il tuo aroma, Mariposa Monarca, ritorna da me: insegui il mio sogno e accarezzami l’anima che già da domani vorrà fare da sola, con mente allargata, un ricamo sublime tra nubi e cicloni, tra oceani e mari senza ormai più barriere. Ritorna anche solo un instante e riempimi il cuore col tuo amore negato, sussura vicino e scaldami il senno, suonami forte i tuoi ritmi e sollievi: capirò senza sforzo, accetterò senza incedere il tuo poema ferito. Caccia ogni dubbio fuori da me, mariposa reale, mariposa irreale: asciuga ogni macchia e riprendi pure il tuo volo. Sognerò poi da qualche altro luogo, e traccerò con il suono il tuo vagare aperto verso ali di senso, il tuo inquieto viaggiare tra memorie e futuri, il tuo moto continuo tra le onde e i fruscii, i tuoi gesti selvaggi di piume e tornanti.


     



PICANELLO
Catania, julio 2018


Le sedie invecchiate di paglia scura fuori in strada ad occupare spazi
pettegoli e confessioni in cui piacere e segreti si mischiano all’odore di
sugo e peperoni, agli aromi sui corpi caldi e volgari che si apprestano
ad incontrare l’amore nascosto tra divieti e timide concessioni a cielo
aperto. I palloni mezzi sgonfi e le bambole con pochi capelli sui balconi
cocenti delle lunghissime estati a sigillare violenze e selvagge confidenze,
a incoraggiare timide promesse e carezze che non vogliono più la luce del
giorno e dei suoi caos profondi e ribelli. Sono le tue strade grigie e i vicoli
saturati da tavoli e motorini, sono le tue coloratissime cartacce e i rifiuti
come sculture in mezzo alle strade asfaltate d’eros, che tramutano stanotte
il nero dei tuoi lutti e gli interrogativi per una vita precaria, in un sorriso
appena accennato e illuminato d’innocenza. O Picanello, che affondi nei
ricordi leggeri o dolorosi attraverso ogni tuo elemento, il meglio di quegli
anni vissuti in solitudine e gioia, la mia scrittura e musica spalancate
al mondo, i marciapiedi color seppia sfaldati da sandali e piogge acide
e sole, i gatti abbandonati e indifferenti al tempo e alle abitudini, le madri
giovanissime ma già sagge di vita, i loro amanti in carcere, le frasi distratte
e aggressive in strada di bimbi vastasi e ragazzini inquieti, l’arrotino
brizzolato che accompagna le mattine avvelenate da debiti e bollette, con
le reiterate melodie fonetiche di coltelli e asciugamani, detersivi e cacciaviti,
le casalinghe senza reggiseno e i vecchi affondati sulle sedie a sdraio
sgangherate da noia e cruciverba. Le traverse gremite di automobili anarchiche
e messe a lucido da poco, le viuzze a intarsi che sbucano da ogni lato come
i piccoli fiumi d’acqua lasciata scorrere per ore dopo lavori in casa e i rapidi
amplessi tra un cornetto e una granita ai gelsi, le braccia conserte sui balconi
dalle ringhiere senza più colore delle nonne coi capelli sfatti che contemplano
le giornate degli altri, detestando rassegnate ed in silenzio la propria vita ormai
avvizzita, anche se strapiena in casa di nipoti che rovistano in cucina alla
ricerca di merendine scadute e ipocrite tenerezze. E il postino con pancia e
muscoli, che arriva rapido e sudato lanciando raccomandate e indiscrezioni,
i clacson dei matrimoni gridati e dei vestiti a credito, la merceria in balia di pizzi
e stoffe per le cresime imminenti. E i motorini, che come insetti gioiosi o
imbestialiti, sfrecciano tra angurie e cicorie, tra canzoni neo-melodiche e latine,
e gli autolavaggi clandestini che lasciano in strada rivoli d’acqua delinquenti e
sapone tuttoauneuro misti alle merde ancora fresche di prima mattina dei cani isterici
e pensosi. Le briosce gialle e i fischietti come flauti stonati in eco alle cinque e
mezzo, le collane sui camionisti e gli accendini in mano alle bambine. O Picanello,
periferia statica e drammatica, micro città dell’anima e dell’abbandono, luogo
supremo d’infanzia e pubertà, con le tue piazze artificiali e i tuoi muri abusivi di
vita e colore, con i fermagli in testa e le code dei capelli legate in attesa del prossimo
orgasmo, con le tue erezioni e i pantaloni sporchi di olio o pittura, di farina o calcinacci.
O Picanello, che selvaggia e astorica, non sei né cresciuta, né scomparsa, in questo
meriggio estivo mi accendi i sensi e i ricordi con le tue ultime luci all’imbrunire e i
venti caldi che trasportano nella mia memoria, il sapore vivissimo di un abbraccio interminabile.




RELAZIONE
Zafferana, 4 dicembre 2013

La (mia) disposizione verso l'atto del disegno è simile all'incontro d'amore, all'erotismo che sprigiona il desiderio, l'anelare verso i corpi luminosi, il relazionarsi verso l'intimità incognita e misteriosa che l'infinita fisicità proietta verso la mia necessaria ed incompleta affettività. Scoprire insieme al soggetto d'amore, tempi e linee, curve e pressioni, tatti e abbracci tra penna e carta, tra inchiostri e superfici, inebria l'immaginazione e nutre il senso supremo ma insondabile che nasconde l'esistenza di questa (mia) vita.


LUNA
Zafferana, 23 novembre 2013

Mi guardi dall'alto del cielo scuro di notte e ti fai complice
di un segreto, di un'intuizione o una saggezza secolare. Ti
mostri per quello che sei: limpida e savia, stabile, bianca
e sì, piena di luce! Che inondi e rassicuri, o luna. Che avvolgi il
mio dilemma e della mia confusione ne fai un'arte o un'
occasione per svelarmi altri paradisi, o mettere in atto 
un grandioso melodramma in cui ci sei solo tu e la mia pena,
in cui il canto dall'alto si fa musica dell'anima, e la catena
che mi tiene legato a te, amore mio lontano, diventa ruggine
e grandine, filo sottile silente e doloroso, una chimera.


DIMENTICARE 
Ragusa, 30 settembre 2013

Il sole in alto e le mani legate da un ricordo, tra le colline e gli alberi colorati di verdi e gialli, tra i fondali naturali infioriti di luci e colori, tra i frammenti di canto occultati da caos e rumore di vite indomabili e affreschi essenziali. 
Le strade che percorriamo tra le speranza di altri incontri sì, ma pure tra la certezza di un illogico rifiuto: è un conflitto perenne, una pena nel cuore, una ferita ancora aperta e una carezza maldestra tra le pieghe che i dolori in passato hanno reso indelebili. 
Inondiamo di parole il deserto del nostro sentire, riempiamo di nulla i contorni di un autunno improbabile. E ci accarezziamo in silenzio, per paura di ammettere a noi stessi che il desiderio sovrasti sentimenti e false promesse.
E' una pausa di senso questa tregua o sconfitta, una sospensione del corpo che si nutre ambigua e stanca, un'immagine indefinita dalla confusione che si sfalda o sbriciola tra lave infuocate e nevi imminenti, tra neri-rossi e bianchi ghiacciati dalla tabula rasa che ha asciugato il mio cuore. 


LINEA IN MENTE
Zurigo, 26 luglio 2013

La linea in mente, incompleta e incerta, si spegne sul foglio
un po' giallo e odoroso di tempo e pazienza. Mi attende! E
incandescente segna dappertutto contorni e attorno ad essa
intagli e ferite di gioia, percorsi incoscienti che sanno proprio
di me... La curva all'orizzonte accennata e leggera le fa da
ponte e la invita lieve a giocare, a infrangersi tra intervalli
e salti di ogni tipo: il sussultare è intrepido, e dinamico si fa puro
linguaggio di anarchia. Ma è proprio l'immagine che si riveste di nero
ad ogni suo bianco. E il florilegio che si compone sotto i miei
occhi si sfalda felice ad ogni nuova estate, ad ogni colore
immerso nella rete inestricabile dei grigi lucenti e sintomatici di
complicità e armonia. Disegno e tratto si inseguono, si domandano
che fine faranno gli oggetti fuori dalla superficie cartacea che
li delinea nitidi e bastevoli a se stessi. Nessuna matita riesce
a farla franca, nessuna modernità può eguagliare gli odori e
i sapori dell'inchiostro preciso e stretto tra i confini di carta e
penna, tra le calcolate sbavature che si fanno poesia! Mi concedo
e congedo una volta ancora, tra i ricordi e i pensieri di quella
notte immensa dal cielo nero e stelle bianche. Cado a capofitto
tra nevi e lave aspre e abbondanti, in cui vulcaniche erosioni
imprevedibili, si fanno quadro e figura inconsapevoli in cui
il tempo mi ruba tempo tra ansie e dolori, in cui nel tempo si
invoca ad un amore troppo presto rubato e annichilito e stanco.
Si volta pagina, si chiude il libro del passato in cui c'ero
solamente io e il mio delirio. Mi credo forte, ma sono un moscerino
che vigila su una montagna immensa di creatività e allegria. Una
linea, anzi un punto, una meteora che si addormenta esausta
attorno al suo calore e gialli e rossi che si porta d'appresso ad
ogni nuova notte. Ma mi apro al mondo lo stesso, chiudersi
tra le ragnatele di retorica e reiterazioni non servirebbe più a
nulla: il gioco è fatto e la penna è stanca. Vita come linea su
foglio usato dal tempo, vita che si muove come curva fatale.
Vita che continua gioiosa a filtrare emozioni, a inghiottire in
un sorriso il marcio di un tempo, che si dimentica presto di
alluvioni e fantasmi. Un po' d'acqua adesso, ma torno domani!


LAVA BIANCA
Zurigo, 25 luglio 2013

Il bianco e rosa danesi della novissima pelle e la fresca lucentezza 
islandese degli occhi a mandorla lapponi, ma grigi o azzurri e con
tanto mare e ghiaccio dentro, si uniscono e fondono anche solo per
tre ore - distese e appassionate in un pomeriggio infinito fatto solo di 
noi e di noi - con un vulcano interiore che è la mia affannosa e impavida 
ricerca di un baricentro improbabile: il fuoco siciliano e lo sguardo etneo
che si appiccicano alle tue cosce e che attraggono senza sosta lingua e
parole, si dissolvono e dileguano poco a poco con gesti silenti, ma forti 
inevitabili e ottocenteschi, di congedo... Un addio che avvolge ancor di più
le nostre estreme esistenze, così diverse, ma così vere e necessarie all'
interpretazione che ne facciamo noi, tra nevrosi e desiderio, tra calcolo
e istinto, tra esperienze di dolore e utopici aneliti di cambiamenti radicali.
Tu non sei tu, e lo sai bene dentro. Io di me sono solo un proverbio o una
massima, al massimo un souvenir o una proiezione lontana di ciò che è
stato in un disegno che delineava tutto, fuorché la mia indomabile fretta
di accumulare e vivere, di sedimentare e uccidermi di tanto creare, facendomi
amare di più ad ogni prova ulteriore che il suono e il tratto mi si legavano da
sempre attorno. Tu scompari nella trasparenza dell'epidermide che esalto
come esotica tra le nevi del tuo passato impubere. Io non esisto nei programmi
di un'estate errabonda ma limpida come i cieli tuoi scandinavi e polari che tanto
mi commuovono: una dolcezza inusuale dalle tue parti, un cedere debole
e strano dalle mie... Riconosciamo tra le dita incrociate d'amore e imbarazzo
le nostre fantasie, ci stupisce dall'alto del tetto ligneo che miriamo chiaro e
rumoroso, un futuro incerto ma perfetto nell'immagine che ne facciamo solo
dentro di noi. Sappiamo che non accadrà più, per questo laceriamo fino in fondo
ogni pezzetto di pelle o tessuto che ci lega o ci separa. Tu torni ai tuoi studi e 
letture, io alle mie scritture: come questa! Come metafora di qualcos'altro. 
In cui teorizzo e mordo di continuo la mia stessa lingua, le mie ossessioni e 
timori. In cui mi tocco e mi ritrovo, mi vedo e abbraccio, mi inquieto e rilasso 
tra ricordi e progetti, tra archivi e utopie. Un abbraccio ancora e poi questa
volta davvero addio.


LAVAme
Zafferana, 18 marzo 2013

Nel giorno della mia prima notte, nella mia nuova casa, mi fai
un regalo che accolgo come segno potente di ciò che si delinea
come una nuova alba, o come un tramonto di qualcosa in me,
montanaro o pastore, viandante o contadino, nomade o beduino.
Pioggia di lava, fontana di terra, schizzi di nero e pietre di vulcano
come metafore di inchiostri, penne e macchie su superfici o fogli
che sanno di carta e tele, in cui la mia esistenza si allarga o si 
restringe, si spiana o si colora con me. E su noi due, corpo e casa 
insieme, si intravede un paesaggio interiore così tanto diverso, così 
tanto dissimile da tutto ciò che di certo mi si era costruito intorno, 
tanto tempo fa…
Ed osservo, senza giudizio o interpretazione, il panorama dall'alto
della mia esistenza, dalla terrazza in cui mi trovo ad abitare, dalla
stanza in cui dovrò dormire e vegliare: e mi sorprendo, mi intenerisco,
mi commuovo per tanto imbrunire, per tanto viaggiare sublime dentro
i percorsi avventurosi del mio corpo, dentro le vene e strade dei miei
spostamenti, dei miei stanziamenti, dei miei dubbi o riflessioni a cielo aperto.


UNA NUOVA CASA
Zafferana, 9 marzo 2013

Dopo un anno, o forse più, ripercorro ancora quella
strada che dal vulcano alla città, discende per colline
e valli, da Zafferana, Sarro, Poggiofelice, Fleri, fino a
Monterosso e ancora giù verso Viagrande, il vero
confine dalla zona che divide la montagna dalla
conurbazione folle di Catania. E m'investe un pizzico di
gioia che non so descrivere, un'eccitazione e
riconoscimento - dentro quel pezzo di anima che io stesso
mi osservo - che qualcosa è irrimediabilmente cambiato:
ho 42 anni, sette volte sei anni, una frontiera dentro la
mia esistenza che si rivela poco a poco un'altra storia. Una
lente o binocolo da cui osservo altre cose, da cui scorgo
un paesaggio diverso non solo fuori me stesso, ma dentro
nel corpo, tra la pelle e i muscoli, tra le forme più insondabili
dei miei stessi tessuti. E si apre un colore nuovo da cui vedo apparire
una voragine di senso che questa meravigliosa esistenza
mi rovescia addosso con grande leggerezza: un avvicinarsi
di elementi nuovi e indefinibili, ma freschi e gravidi di
indizi. E Zafferana come sfondo tra questo mare di montagna,
diventa luce e ombelico da cui osservo il mondo e la mia vita.
La notte buia, discendendo dal suo manto, adesso mi è
compagna e amica. Accarezzando le ferite degli ultimi anni,
questa stessa notte buia mi avvolge e mi protegge, scalza per
me i veli e le incertezze di tanto peregrinare, si fa muro di
cinta per un'esistenza che si prospetta tanto distante da
Catania, tanto diversa da tutto ciò che ritenevo immutabile.
Eppure non è così... C'è una forza da guerriero, una lama
pronta a volare, un pugnale, un goniometro, una gabbia
da cui guardo il mondo e lo coloro di bianco e nero, c'è
tanto oblio e tanta memoria, un desiderio di calma e di
silenzio, una strana voglia di buio e di vuoto, dopo anni di
caos e viaggi, inquietudini e movimenti, lingue e bandiere.
C'è un riappacificarsi con quell'immagine di me che faceva
gara a superarsi, a negarsi, a riflettersi continuamente tra
altro e solo altro: una perenne astrazione tra i giardini dell'amore
e del disegno di una musica costantemente inquieta e
precaria, e che nell'aria si riconosceva invisibile ma pura.
Ma adesso, attraverso il segno che si fa corpo e carne, si
impone in maniera naturale una lingua strutturale in cui
lascia fuori il suono e l'effimero per dare posto a inchiostri
e solchi, a materici percorsi in cui la mente e i suoi potenti
labirinti si rendono visibili a tutti, ma prima ancora a me
stesso. Sono così diverso adesso, così profondamente me
stesso e multiforme, così serenamente io, tranquillamente io
e pure tanto di altri, di tanto altro successo, un florilegio
di micro esistenze ed esperienze, di fatti e atti che solo adesso
me ne rivelano l'origine e il senso. E lascio Catania, con la sua
fitta rete di vite, di intrecci, di odori e fantasmi, per accogliere
il vulcano, le sue nebbie, i silenzi e le ore vuote di vita a dare
vita al nulla: Zafferana e la montagna attorno, Milo, alberi e
freddo d'inverno, fresco d'estate, alto, alto, e cielo cielo e il
mare da lontano che si osserva da solo e immacolato, tra
verdi e alberi, case isolate e felici, strade lisce d'asfalti neri
in cui le strisce perfettamente bianche, ricordano le penne
chiare che utilizzo per macchiare le strade della mia vita, per
delineare memorie e suggerire giochi di curve e linee, un
dolce divertimento tra la voglia di altri corpi nudi e veri.
E allora è primavera, è certo una nuova fase, un nuovo luogo
in cui ci si rispecchia felicemente stanchi in un approdo, un porto
senza mare, una nicchia, una culla, il palmo di una mano,
una fessura in cui insediarsi, un nido, un nascondiglio da tutto,
l'insenatura in cui lasciare tutti i libri, tutte le letture, i pochi
oggetti accumulati in tanti viaggi, e i fogli e partiture. Non
possedendo più nulla, posseggo solo me, non conservando
alcuna forma di materia, risplendo più solo tra i girasoli e gli
aranci siciliani, tra i profumati petali e gli infusi di cannella,
tra i ficodindia e gelsomini, le vigne e le mimose. Per dimenticarmi
dei miei ricordi e aprirmi al mondo, ai mondi, alle alture da cui
scorgo odori di nuovi paradigmi. Perché amo scomparire da me...


CATANIA IL POMERIGGIO
16 gennaio 2012

È questa l'ora migliore in cui dedicarsi a se stessi, dalle due e 
trenta alle quattro. Le pause dal lavoro, agognate come secchiate 
d'acqua nei deserti delle proprie esistenze, sono contenitori 
di abbandono fisico anzitutto, ma anche di fascinazioni sensuali, 
fantasie e proiezioni in cui il sesso nascosto tra le viscere dei 
catanesi è diverso dal resto del mondo. Catania e le sue strade 
vuote e in tregua, non sa più di nulla. Si annienta su se stessa, ma 
rimugina tra dolori e amori le proprie incertezze e desideri. 
La via Etnea, scende e sale, si apre sul nulla e si chiude sul tutto, 
la via Garibaldi violentata da carni fresche e straniere, nella loro
audacia e trasparenza, la pescheria che si pulisce da sola
come una gatta sapiente e meschina. È questa l'ora di un 
pomeriggio catanese, che alle tre in punto dimentica il tempo
storico, si avvolge su se stessa come un gomitolo gremito di
faccende familiari, un riccio abilissimo ad occultarsi e proteggersi
da tante infamie naturali. È questa l'ora in cui il caffè si
materializza in color marrone tra i cieli pesanti sopra via
Crociferi. Catania, come una vecchia isterica o un bimbo
troppo sicuro di sè, una donna con seni immensi e un
africano eccitato dal sole che in via Maddem sogna il
Senegal, tra arancini tiepidi e scacciate ingiallite. Ed alle
tre e mezza il cinema rosso si scalda di vecchi, le ragazzine
cinesi a fare i compiti e gli arabi a fumare gioiosi e affamati.
Ancora una mezz'ora per digerire tanta indifferenza ed una
fetta di salame, i muratori manzi a scrollarsi di dosso i calcinacci
e le liste delle spese: trenta euro in tasca cambiano la vita. 


CATANIA LA DOMENICA
15 gennaio 2012

È sugli odori che scrivo adesso, su quelli domenicali,
indimenticabili, di mezza mattina, prima di pranzo,
pronti ad immergersi tra salse e caponate: i rossi evocati
dai piatti e tovaglie siciliane, i bianchi parmigiani, gli
arancioni delle paste soffici e abbondanti. L'odore della
pioggia sull'asfalto che sa di terra e lavoro, ma che sullo
smog si annulla subito cedendo il posto ad una lucentezza
immacolata: l'energia dei bimbi che accompagna il mezzo
torpore degli adulti, le presenze di gatti e cani nelle case
puzzolenti di veccchio e secolare. Una Catania dimenticata,
eppure lì a scaldarci tra stufe e grigi vetri sfatti da tanto
innocente cuttigghiare la vita degli altri. Ancora odori 
pesanti di muffe e carta riciclata, di biciclette scassate, 
di vernici e colori tra tanta vita e pure morte.
Perché Catania sa di morte e di inesorabilmente statico
eppure forte. Come i suoi odori, i suoi secondi piatti
popolari, vastasi, conditi di grida e vuciate, tra i sessi 
evocati ed i piaceri nascosti. Tra gli innumerevoli tentativi 
di erotismi repressi e pure consumati. E i maccheroni e 
mezze penne tra cucine e fogli, tra scritture e fritture: una 
dimensione che non si può delineare se non si è vissuti tra 
sogni e lacrime. Ma adesso vorrei solo sfiorare il cuore delle 
mani delle mamme e delle loro anime docili e pazienti, 
vorrei riprendermi lo spazio e il tempo abbandonato da 
girovagari nei futuri di un'illusione. E ancora illudermi che 
questi veri odori rimangano tra noi vividi e perenni.


CATANIA LA NOTTE
14 gennaio 2012

Ripercorro in macchina in discesa la valle che da
Zafferana mi riporta da te, Catania amata. Ed è
entusiasmo che si mischia a un sentimento come
di usura, di abitudine, di familiare staticità. Le tue
luci arancioni tra i marciapiedi di via Umberto, lucidi
e rotti, mi sanno di perenne infanzia, di un silenzio
notturno in cui mi godo la tua presenza tra odori
e fetide allegrie leggiere, tra ragazzi spetti e chioschi
assetati di futuro, in cui ci si tuffa tra monologhi e
sceneggiate talentose, in cui si fa teatro senza saperlo.
E tu, Catania, che guardi da sempre, narcisa, come
in uno specchio le tue bellezze e asprezze, ti apri
solo quando lo vuoi tu. Ma sei chiusa al mondo, nascosta
tra laceranti verità e comode prigioni, tra nudità
eccessive e intriganti melodie che conosciamo solo
noi due. I contorni e disegni tra le finestre illuminate 
che di notte spogliano voglie e rivestono drammi, mi 
ricordano disegni e contorni inalterati nel tempo, 
forse antichi florilegi di paesaggi interiori. E adesso, 
dopo aver parcheggiato macchina e modernità, mi spingo 
solo ed isolato, tra i passi felpati di notte, tra le viuzze 
abbandonate dal mercato dietro la fiera: mi spingo
ad abbracciarti amata e temuta. Ma mi fai compagnia
e mi rassicuri, alimenti le mie perplessità: se devo
cercarti la notte od obbligarmi a dimenticarti di giorno.
Intanto sei qui, ed io sono qui. Un bacio a mezzanotte.


PIOGGIA
1 dicembre 2012

Uno zenit di buio da dove rinasce la luce, adesso:
sono le 4 e 22, una notte passata a dormire su un
desiderio, un abbraccio in itinere, una carezza
agognata tra sguardi in codice e lo sfiorarsi tra gli
avambracci nervosi e silenti in mezzo a tanta gente
e tanto puro vuoto. Le labbra che parlano calde e
le fascinose linee della pelle che si interrogano e
seducono in giochi mentali, ma in cui il corpo
rivendica la propria natura e stupore. Nell'attesa
che dunque da tutto ciò si intraveda un punto 
esclamativo, arretro e sogno, mi nascondo da te
e dal mondo, per poi tornare tra le tue mani come
un guerriero e un soldato, un tenero volatile o pure
un'aquila che da una montagna di carezze e desideri
arrivi da te con un sorriso e tante parole. E abbracci.


20 NOVEMBRE 2012

La tua voce scalda il suono della mia voce, e la fa vibrare
di attesa e di sereno ritorno a casa dal paese dei cedri. 
Anche se non abbiamo mai abitato insieme, è proprio il 
suo cantare tra le linee del cuore che mi grida di silenzio
nel cuore. E mi sospende il sentire che assieme a te ci 
sono anch'io. E che nell'immensa distanza ci sono pochi 
centimetri e tanto bollire in corpo il segno manifesto di 
una genesi ancora da scoprire. Ed è un messaggio che ti 
arriva da lontano questo, una rosa di acciaio, un fiore di 
montagna che dentro la roccia che stiamo costruendo, 
cresce solo ed esclusivamente per noi.


SONETTO SGANGHERATO
Catania, 28 novembre 2011

Il segno della mia penna e dei miei colori potrebbe andare 
ovunque: ed è con movimenti decisi e sconosciuti che 
esso delinea panorami improbabili e ineseguibili. 
È la sua storia, i ricordi e i desideri che tutti insieme 
si amano per ristabilire armonia tra le disarmonie interiori e 
gli imbarazzanti silenzi di una serata sbagliata, tra gli abbracci e 
intrecci di gambe ed anime, tra le proiezioni che si facevano 
tra loro: tra le maschere di una caricata solitudine.
Insegnami come si ricomincia daccapo, scaldami il cuore una 
volta ancora, obbligami a mettere un punto al mio dolore. 
E cospargimi di virgole, di respiri, di carezze senza oggi né domani. 
Un sonetto apparente nella forma, abbandonato al gusto di chi legge e
ascolta le parole forti e gremite di lirismo. Se smetto te lo dico. La 
complice velocità di pensiero per riformulare piani e forti incandescenti. 


MIO: POEMA D'AGOSTO CHE SCOMPARE
Catania, 8 settembre 2011

È proprio nel momento in cui ci si innamora del sole che 
si abbattono castelli, idee. (E orchidee). È dall'analisi del 
buio più incolore che si scalda il polso di un gigante 
impazzito e prossimo all'altare. Una volta ci si avvicinava 
al vuoto ed al teorico sublimare incauto che incapace e 
storto si scioglieva a metà tra acque e terre d'oltremare.
Adesso pure si scorge tra mura antiche e potenti, 
un ulteriore disincanto di catene e anelli, simboli perenni 
di grandi mari e piattaforme laterali. Non soverchiando le 
immagini che si hanno di te, esplodiamo a tutto gas, inquieto 
dormire; bisbigliando tra noi nascosti è la notte che mira e 
dichiara complici e re. Ma non scompaginare il territorio 
fresco e nudo! Il traguardo assorto ci donerà gioie e cataclismi: 
vedrai, l'altranno saremo in due, tra confusione e crisi incredule, 
tra penne e matite in bianco e nero e tra il nero di te che si 
sfascia da solo (e giallo). E tra il rosso-passione che
io retorico intono in un canto selvaggio e aperto.
Non chiamarmi più amore, non oltraggiare il passato insonne.
Non adulare il manto che portiamo distratto ed ammaliato
da anni di pazienza e attese. Lo sguardo intenso di una volta, che 
adesso si dirige volgare e a chi non può più competere tra guru 
e saltimbanchi. La mia direzione si staglia tra le vette inferocite 
e gli alberi volgari. L'indole girovaga con la valigia in tasca mi 
darà ragione, in un inferno di stagione scolorita e inerme.
Ancora una volta ti coloro e anniento, ti esigo e cancello,
ti esalto e disprezzo. Un'altalena di concetti e oggetti che 
ci guarda dall'alto: che ci difende e attacca all'occasione. 
Una sferzata di candore, il giubilo, l'area contesa tra guerrieri 
di continenti differenti. E sì, ci si dovrà ripetere. Ma per 
l'ultima volta: il fiume, questa volta, terminerà domani. 
Le lagrime dei pianti miei sotterranei e marci germineranno 
alberi e foreste. Uno sbaglio madornale, un'occasione da 
valutare, un'opportunità da soppesare tra il cielo e il mare 
di una notte d'estate silente e innamorata.


3 SONETTI 
Catania, luglio 2011

I. 

Ricerco nel viaggio la tua essenza dentro il mio spazio di piacere,
vagabondando ad est ed ovest senza mai ridefinire l'alba.
Abbraccio il vento che s'investe da solo con tanta nebbia e sale,
e scendo poi all'aurora intatta, che mi saluta insonne e vile.
Il mio sonetto si compone da solo, come giardino fragoroso di
delizie e carmi. La mia simpatica compagna, compiacendosi si
scalda, tra i vaghi ricordi e i sintomatici vizi di una vita intera,
spesa a grattuggiare le anime degli altri e rivestirle di polvere
e di noi che ci ammazziamo fragili e indifesi. La geometria che ci
cammina all'orlo della pace infranta, la geografia delineata e
gravida di perle ed orchidee. La vita mia che scorre solo dentro me.
Dimmi dove sei e quanto tempo ancora dovrò attendere questo
sublime pasto già assaggiato. E poi l'immaginario indelebile nella
memoria del mio volto si sfascerà con noi tra milleduna candeline.

II. 

Il suono solo non comunica senza uno sguardo che dentro
ti accarezzi l'anima e ti stringa il cuore incatenato a se stesso.
Ci vuole altro: ci vuole la pausa, il respiro, l'incedere cauto
e nobile di una presenza invisibile, per fare esplodere senso
e soggiacere a chi ci guarda e scalda intutilmente il sole,
che già da solo basta a illuminare il buio dentro noi stessi ignari.
E' stato tutto un bluf questo incessante mare di suono e male,
la primavera ne ha già eseguito l'ordine: ritornare indietro
e scavalcare il clima indotto e indomito all'ascolto. Non puoi farci
niente, eppure calma: respirando a ritmo e coscienza, libererai
tra noi il fiotto carico di musica che s'annida placido e immenso.
Voglio capirne il senso, maleducato e storto il meccanismo che
crudele sotto ne solletica forte l'entusiasmo e il tatto: è una questione
di stile, ammutolire il gesto e frantumare l'ordine stesso delle mie parole.

III.

È grazie ai vostri divieti e censure che io trovo tutta la forza
necessaria per strappare fogli e libri e bucare muri e suoni
con il doveroso rigore ed entusiasmo di chi non ha paura
e sceglie e discrimina tra tanta fornitura di false parole e note.
Nel pregiudizio ed ignoranzia su cui si fondano i vostri soliti temi
io ci sbatto sopra le mie righe e punti e curve in paradisi di
battute e segni per cui tutto ciò che scrivo ed armo gronda
di rischio e di coraggio, un cavaliere d'oltremare che si convince
da solo che il fondamento del comporre risiede in una pace
o guerra interiore e che da lì si osserva vivere o morire come
un aquilone. Girare e voltare o nascondersi dietro paraventi.
Le battaglie si conducono da soli: è la fine l'orizzonte e il
panorama che si staglia tra le innumerevoli pagine di una
partitura ulteriore ancora da scrivere, è tutta già qua dentro l'anima.


OCCHIORECCHI
7 maggio 2011, una volta ancora da Monterrey a Morelia, di notte.

Sogno una musica che si ascolta come si fa gli occhi. Sí!
Così come la direzione dello sguardo si posa ad esempio su un quadro senza che le figure o gli oggetti in esso rappresentati di per sé ci dicano ove condurre per prima l'occhio, voglio una musica, una composizione in cui l'orecchio si rivolga, senza il suggerimento o decisioni di nesun autore, volontà o orecchio esterno, ai suoni o strutture compositive che più ci attraggono o incuriosiscono. Sarà ciascun ascoltatore semmai a scegliere il percorso da compiere secondo il proprio gusto o necessità di varia natura.
Tutto ciò non comporterà certo la creazione di un'opera che conterrà ramificazioni strutturali contraddistinte dall'indifferenza percettiva, arbitrarietà o superficialità. 
Lo si ripete dunque una volta ancora: sarà come osservare un quadro. Le durate di permanenza dello sguardo e gli oggetti su cui si poserà l'occhio dipenderanno intrinsecamente dalla peculiare soggettività ed immanente contingenza del momento, così pure dalle condizioni in cui si verifica la contemplazione-ascolto. E dunque la ri-composizione o de-composizione della sintassi e del lessico del quadro/partitura.


TUTTE CURVE IN NATURA
28 aprile 2011, da Monterrey a Morelia, Messico

Tutte curve in natura. E cosí le montagne i mari, i contorni di ogni cosa, le ascese e gli abissi, le strade e i fiumi, i lampioni. Accompagnare con dita e gambe simboliche i disegni e le forme attorno a noi. Perché non c’é una sola línea, un solo frammento retto e geometrico.
Tutte curve in natura. E col suono vorró ripercorrere lo stesso tracciato mentale, ma attraverso il puro inseguire la linea e il gesto secolare. Circhi e cerchi, non carceri o quadrati.
Io sento il silenzio, respiro il buio nero che avvolge quel suono inesistente. Io non dubito del nulla che si accascia con me, e non ho paura di rimanere silente e senza gente attorno. Voglio solo il bianco, scomparire e occultarmi tra alberi e faló, tra azzurri orizzonti e temporali interiori, ove la luce e il diaframma si uniscono complici e supremi.
Tutte curve in natura. Per questo mi batto per mantenere intatto l’entusiasmo di rotazioni e movimenti singolari. Poco a poco ne si capirá la spinta e l’intenzione, anche se indugiare ancora potrebbe essere tardi: di primavera e notte, che col buio si riempie di odori e gialli.
I colori che ho aggiunto allo schema del corpo che si muove nello spazio immaginario e silente. Un’articolazione parla da sola ed esprime un concetto che poi si disegna pure da sola! E le dita, i polpacci e le spalle, te le immagini volare e sganciare nuove cromíe e direzioni?
E allora prendimi il contorno ed aggredisci lo spazio che si fa nostro solo quando lo accogliamo.
La mano ci guiderá lontano, ci attaccherá dall’alto come un’aquila dorata e liberata.
Vivere il vuoto tra il pentagrama illuminato e l’avventura letteraria che si travolge e prepara all’estate. Curve ancora i fianchi e le cosce sode e bianche che spingono e credono ad un solo amore, un solo grande testimone dell’abbraccio e del bacio naturale.
Una curva che sale e ridiscende, che compone e descompone tratti e linee, semicerchi e frammenti, ma con suoni e catene.


PRIMA OTTAVA
Monterrey, 22 gennaio 2011

Dedicherò alla vita gli abbracci e le notti che hanno tenuto insieme e vicini i nostri abbracci. E le notti fabbricherò col sudore ed il calcolo più spietato i movimenti di passioni che ci hanno regalato entusiasmo e oro. Per tanti anni. Le nostre notti, sì, e le mattine di domenica non mancheranno piú di sogni e allegrie.

È il nostro abbraccio supremo che si chiama musica. Saranno i movimenti di braccia e dita sulla pelle che definiranno ritmi e cesure, melodie e strutture, che di musica e suono nutriranno storie e futuri con le promesse. “Questa non è vita”, ci dicevamo pieni e rotondi dei nostri abbracci. E la pausa si chiamerà sorpresa, ed il silenzio vita di noi e della vita. Siamo noi e di noi. Ancora una volta il disegno del corpo che si muove di notte emetterá musiche. E sonore asimmetrie.

La grande musica del cuore finalmente forte ci toccherá d’accordo al nostro candore insonne, con intatta sintonia. E poi calerá la notte ancora e ancora di notte tra noi il sicario sulle nostri notti. Ed abbracci ancora, con suoni e musiche lontane: noi in abbracci vicini ed inspiegabili tocchi di dita e pelli, furiose e intense melodie. Silenti diagrammi di corpi che ci cercano ma che si perdono in conflitti ed affetti.

La penna immaginaria ci donerá tratti e quadri, di una poesia violenta e dolce al tempo. Che maturano idee e fonie di ricami e forme elementari. La nube passa e si mantiene florida con il cuore a metá, ed il gesto incontrollabile perché disegno è di te. La via costante nell’ascoltare il tempo di incontri e trecce dei nostri abbracci. Ci donerá calore e odore di noi.

Ancora noi l’oggetto di questi suoni selvaggi e veri, ancora noi domani. E al centro del centro di noi. Funesti sogni di immaginari e facili disegni che tra i corpi si spiegano sereni e gai nell’ombra di gambe e polpacci, donando linfa a vita e fiori, col nastro colorato che si abbraccia insieme a noi. 

Ma tu dicevi che l’amore non colora il verso, che il sapore dell’anima non si avvicina al vento e all’acqua. E le pause che da qui si agganciano perverse e gentili, si chiameranno sole e distanti ad altri sintomi e teorie. Non mi dirai nulla di te, è la sola immagine che mi ricordo e scontro tra le pieghe del tuo verso. E le dita del disegno del corpo immaginato, che erigerá da solo l’edificio che ho voluto utopico e forte. 

Le direttrici che si stagliano tra virgole e paragrafi non ci staranno piú tra soli e stelle e lune d’argento. La follia incipiente che si sfalda tra gesti ed anime si unirá ad albe e freschi tramonti. E stabilirá chi di noi per primo sará tra noi insolito compagno e testimone di ghiaccio e terre universali. Questa lunga improvvisazione, perenne traiettoria di cuore e vita, ci attaccherá l’anima e il sogno con cosí tanti sogni e anime. 

Per le ripetizioni che il quaderno ci regala in solchi e sentieri atemporali. Il disegno del corpo, sí, il fantasma di un colore tra noi e il finale di sonata che tra ponte e stretto ci dará tra noi la dimensione ulteriore di una pagina intensa e densa, inconcepibile famiglia di un insieme che oramai si dice luce. Luce di te, e tra noi il disegno che si trova tra loro ed il fondamento di idee e sogni fucaci, regali. 

Ti amo, sentiero perenne. Ti amo, bosco selvaggio. Ti amo, amante supremo. 


SECONDA OTTAVA
Monterrey, 23 gennaio 2011

Posizioni alternate tra gambe e linee verticali, le basilari armonie dei nostri corpi stanchi e floridi da tanta aria e respiri e melodie che il sogno non puó piú contenere. Studio oramai il silenzio della notte che si avvolge tra noi e il vento. Colorandone contorni aspri e veritieri. É cosí che si sfida l’accademia, da domani una striscia di luce a mezzogiorno ci incatena tutto il resto, strappando verdi e grandinate ai campi ulteriori di questo Messico profondo.

E tu, che di notte non concedi tregua e sangue alla mia notte, ti salverai con me. E senza dire alcuna messa all’obitorio di tua madre, ne salterai di gioia adesso che tutto pare trasformarsi d’un solo tempo al buio. Io sí, ci sono dentro. Ma ti osservo da lontano e da lontano soffro di questa luce lontana che ci travolge e avvolge. Io sí che ti coloro tutto, ma ne affitto le prove al dolore di una notte, terribilmente umida e sola.

Voglio prove anch'io, certo. E adesso del resto volto pagina e suono come vuole il suono solo e senza voci. Il quaderno mi accompagna il silenzio, e la scrittura da sola e solo mi lascia inerme ma appagato. Da tanta luce e grondaia di colori io ne ripeto lo stesso gesto: è da me che riparte l’ouverture! 

Di luci e odori rimango stregato, se armonia sará la mia compagna. E da linee rette e orizzontali le divisorie illusioni si accasciano su terreni d’oltralpe abbandonati. La neve per fortuna s’intravede, tra giullari e versi razionali. Ed il comportamento rubato a grandi passi e mani lucide, che bianche e lucide si agitano tra noi. E le coperte calde di questa notte di luce e di calore. 

E ritornando a leggere il verso tratteggiato da malori e nausee di numeri e frammenti. E te ne restituisco il doppio, con carezze e assiomi, linguaggi assonnati e stanchi. E mi ripeto ancora, perché la luce ne individui poesia. E del recinto fuori porta non ne sveli curve e traiettorie. 

Sì, ancora buio tra nostre gambe e sessi, ancora luci tra le innamorate voci dei nostri corpi. Di luci innamorate. Complice l’anima insonne che testimone n’è di questa lunga e articolata linea di calore. Ne voglio ancora di piacere, voglio svelare trucchi e strategie a mappe di noi e partiture, le complesse strutture di lingue e numeri che fanno di noi principi e re, sultani e sovrani. 

Voglio parlare all’alba e ascoltare molecole di microcosmi addolciti dalla pioggia, e aprirti l’anima e camicia. Voglio sedurti ancora e strisciare con la lingua le pelli forti tue e chiare, e scurire con baci la pelle forte tua e maya, la fronte illuminata di lavori tuoi e rinunce. Il respiro qui vicino al resto del tuo giaciglio, si fa piú immenso e irregolare, mostrandosi nudo e strategico fantasma trasparente. 

Attendo segnali occulti e primavere profumate, che da domani in avanti salveranno tramonti ed idee. Attendo amore e guardo lune addolorate, ma con certezza di aver provato intime reazioni assieme a te, forti gesti dietro te, multiformi linee e disegni che traducono sensi e fonti, geografie e geometrie.


MARINO FORMENTI gewidmet
in aereo, tra l'oceano atlantico e il New Jersey, 6 gennaio 2011

Acqua le tue braccia e il suono-onda che si nasconde da solo.
Leggere con intenso sentire quei movimenti e le delicate
sintonie che svelano grandi dissonanze dell' anima tua.
Colorare la tastiera di spiriti e respiri. E sublimare i volti comuni
di immense simmetrie. Solo tu potrai segnare i contorni in silenzio
e voltare pagina all'interno e sempre dentro.
Ascoltandoti le forme di chi si dilegua e affronta il nulla, con poesia
e violenza, i tratti chiari dell'abisso fascinoso. E la tastiera ancora
che si incatena da sola e si sfascia all'alba di quelle notti insonni.
Marino sentire il mare distante che si allarga con te. E da me si staglia,
mediterraneo, il sapore di una volta e svolta ancora: il tuo comporre
sublime e povero, essenziali le forme e i disegni di domani.
Subacqueo gesto che gronda sudore e studio a notte aperta,
confinata allegria: di grande e piccola bugia le mani divise e aperte 
tra quinte e ottave inesistenti. All'occhio e al suono.
I pedali fanno male eppur armonici gli scatti doverosi dei loro estremi,
nervosi. Si eseguirá in silenzio questa sonata senza ponti e fughe,
senza frasi e cesure.


A Giorgio, mio nipote, affiché un giorno, 
forse scoprendosi “ finto” adulto,
possa rimpiangere di essere stato un “vero” bambino”.

Tokyo, 17 novembre 2005

Ed io i suoni li calpesto come foglie e li butto giù dall’alto del mio balcone,
come faccio con le costruzioni o gli oggettini multiformi e colorati.
E voglio sempre esagerare, non fermarmi mai con la fantasia
ed ancora inventare e curiosare come nei cassetti del nonno,
sempre pieni di sorprese, sempre ricchi di idee e ispirazioni.
E non posso certo smettere di ridere di voi, 
adulti stanchi e impreparati al mio entusiasmo ed energia…!
Sì, è vero: ne invento uno sempre diverso di gioco,
di domani non mi importa: lo avro’ già dimenticato.
E non ditemi di smettere! Non posso farci proprio nulla
se adesso i suoni li sento e li voglio solo piu’ forti e veloci e tra un po’ forse soavi e lenti.
Che piacere quando canto da solo o dirigo una orchestra inesistente.
E non me ne vergogno…! Suoni ce ne sono tanti attorno a me, ma voi non li vedete…
I suoni sono immagini, sono colori, sono persone, animali, piante.
Sono tutti noi e tutti voi, i suoni sono oggetti, non concetti!


LUPT AGHÊ
non-sense language


Lupt Aghê è un testo non-testo di parole assemblate insieme per trasmettere una sonorità linguistica quanto più omogenea e foneticamente coerente, di un idioma inesistente, ma non per questo improbabile!

Concepito come un’improvvisazione vocale, o come testo da recitare, pur non possedendo alcuna semantica -  ma solo una generale musicalità, anche se non rispondente ad alcuna regola metrica o prosodica -, Lupt Aghê si presterebbe, perché no, pure ad un’analisi crittografica. Potrebbe inoltre essere interpretato come un esercizio di composizione, con la finalità di far esplodere sotto forma vocale e linguistica, in maniera anarchica e fantasiosa, l’immaginazione creativa.

*

Sûnta ciafên, le stigmârdo forbe, inkiallîto gresto.
Bar ripôrmo ingepsto du sguargno ingândo.
E li panto strengio, par dun calô dosêrgo.

15 dicembre 1997

Juân stu gherbu, infiân stopêl
ke bîncador asên, ciulsûn ghimâr
apêr faghîr, fastûs singân domîr.
Fast cabûr, peru dopâr stupêr
sintu fuên, che lândes marigô
uen virô senkiâr acontaiâl edî,
brun cingôda assûn, diprâ singodêr
afûn balorki, ghestuâ sobêna
emaghipôr su ke stepûrsi cora :
"Fuci bars, gunpastîr blatîsu,
ghinfalôr adûl, fantêr bigô."
Simpramâl uendît, fostêmbr sudôn,
polû, kuelsidân grofûlt impâl,
brund abêrstu sînco, ciostêl facô.
Finciân palêr, ai bers faghên stimpû.
Ipâ, tiprôn gorâda stis, zintâ priustô.
Gadîn dauêpl, laplênc pradê.
Feriûn galônde sbintôr che tampro
aiuntâpor plancû sefâ intâlu dupa.
Iûfa cacipâse gentrubûla fralu.
Sîen liâlus prapro sonchi fantrus ciêgh
balihô side, ghendo trafrên sulêc.
Incie, pakit prenfra sincuô tavîel
sbuôde cuês, da prenco scentri
ghidrên palucâs, depri ciâsfrat, côncue sdu.





LETTURA di "Tempeste di Te"
a cura di Nino Romeo


Forse per richiamo di contiguità e continuità con l’attività primaria di musicista di Angelo Sturiale e per la mia propensione viziosa all’inscenamento, leggendo e rileggendo, a volte ad alta voce, alcuni brani di “Tempeste di te”, li ho trasferiti, trasportati in melologo, genere musicale di fine ottocento, inizi novecento naturale evoluzione del lied di shubertiana e schumaniana memoria, in cui il logos, la parola, acquista pari dignità rispetto al melos, alla musica, al canto strumentale.
Al di là delle rispettive attività primarie, musica per Angelo, teatro per me, sin dal primo approccio con le pagine di “Tempeste di te” ho avvertito che il melologo potesse essere un’opzione sostenibile.
Tra quelle pagine balza infatti una tensione forse spontanea, in Angelo, alla prosodia della fonè: non semplice scansione della parola, ritmo, ma flusso della parola da dire. Dunque, mettiamo di canto il ritmo musicale, perché di altro si tratta.
Immaginando un melologo a partire da brani di Angelo Sturiale, mi sono chiesto se avrei affidato ad Angelo Sturiale musicista la composizione musicale di questo melologo.
Non è una domanda ad effetto; né, spero, una domanda oziosa.
Perché, sempre al primo approccio con “Tempeste di te”, ho avvertito che, innanzitutto, avrei dovuto mettere da parte quanto conoscevo di Angelo Sturiale musicista: ed è un consiglio che do anche a coloro che affronteranno la lettura del libro.
Angelo Sturiale è un concettuale ancor prima di essere un musicista concettuale: la concettualità è la precondizione della sua pulsione espressiva. Concettualità, non teoria. La teorizzazione è l’applicazione del pensiero in tappe logiche consequenziali; è applicazione del pensiero verso la sintesi. La teorizzazione pretende un pensiero astratto dalla materialità. Il concetto è invece materia, pensiero materiale. Il dualismo ottocentesco tra materialismo e spiritualità e tra i loro derivati -ragione ed istinto; rigore e passione- è stato smontato, in sede estetica ancor prima che in sede filosofica, dalle avanguardie storiche del novecento: in musica, in letteratura, nelle arti visive, nel teatro, in architettura.
La sperimentazione è il metodo attraverso cui la concettualità, pensiero materia, si dispone a configgere con altre materialità.
Angelo Sturiale musicista si è lasciato trasportare dall’onda lunga che arriva dagli inizi del novecento sino ai giorni nostri: e che ancora non si è arrestata. E la cresta dell’onda gli ha strappato gli abiti del musicista lasciandolo nudo: individuo che si esprime in dimensione plurivoca, annullando l’appartenenza ai generi e alle categorie artistiche.
Prendendo in mano “Tempeste di te”, però, Angelo Sturiale non ci appare il desnudato musicista che era e che oggi non vuol esser più. I vari brani di cui si compone “Tempeste di te” hanno coerenza formale e prosodica, hanno equilibrio ponderale di parole, frasi, costrutto.
Forse che Angelo Sturiale, attenendosi al genere letterario, ha volutamente trasgredito il percorso di Angelo Sturiale che ha dismesso il carico di appartenenza ai generi artistici?
Dico subito che, secondo le mie valutazioni e disvalutazioni, la trasgressione, anche nei confronti di sé stessi, è un valore aggiunto per ogni individuo: per un artista, poi, è un obbligo da assumere in ogni contesto.
Temo, però, che questa impressione iniziale sia legata più all’impatto formale e stilistico che alla progettualità complessiva del libro di Angelo.
Azzero tutto ed indosso gli abiti dell’investigatore per scovare i sottotesti di “Tempeste di te” il cui testo risulta immediatamente affascinante: e mi ha coinvolto a primo impatto.

“Tempeste di te” si presenta come un diario: diario di viaggio, nella prima parte. Ma, diversamente ai diari di viaggio consegnatici da Goethe, Stendhal, Stevenson, Angelo Sturiale raramente fa cenno alla tipologia dei luoghi visitati: Angelo ci descrive le sensazioni, le emozioni, le riflessioni provate e la cui connessione con i luoghi è intima in lui: un intimo diario di viaggio.



POSTLUDIO

Hubiera podido utilizar el canto para dirigirte estas largas palabras de amor, hubiera podido componer una música leve o potente que actuase como base complementaria para esta abundante profusión de conceptos, para estos verbalismos excesivos, para estas reflexiones estratificadas de significado, y para las saturadas consecuencias emocionales por cada analogía verificada, con la intención de rozarte el alma e inducirte de las maneras más subliminales a los razonamientos y recuerdos y memorias y enterrados dilemas e indecisiones, y a los errores u equivocaciones que tu existencia ahora te empuja a reconocer leyendo estas secuencias exaltadas de letras y párrafos densos de experiencias, de análisis, de proyecciones alteradas, de potenciales canciones. 

Hubiera podido hacerte escuchar desde mi propia voz los sonidos más melodiosos, o proponerte, a través de seducciones cuidadosas y discretas, fragmentos de coros amplificados de mis muchos yo, y con los contrapuntos instrumentales más elaborados hubiera podido regalarte armonías sinuosas y complejas para agitar tu corazón en las formas más impensables. Sin embargo, para comunicarte con eficacia mis muchos y variados pensamientos sobre el amor, he elegido una ruta diferente, inusual, tal vez más auténtica que mi carácter o naturaleza: aquella, es decir, por la cual me callaré esta noche cuando termines de leer este libro-delirio, de hacer silencio dentro de mi silencio ya épico desde hace diez años, y estar mirando acompañándote por la mano, en la lectura de este poema antiguo y universal, para contemplar lo que se oculta detrás de la pausa forzada y la aparente y a la vez obligatoria vacuidad de mi talento empapado y desgarrado por improbables sentidos y teorías siderales. 

Frente a las trampas y jaulas de las paredes y prisiones sonoras de las reiteradas cancioncillas, de las vulgaridades verbales y obsesivas cacofonías diarias, y donde los mensajes sutiles y las pausas densas de silencio se pierden por fuerza de las circunstancias entre los acuerdos triviales y las monodias contaminadas, frente a los magmas de sonido descompuestos y las olas ininterrumpidas de ruidos violentos y arrogantes, frente a las banales variaciones sobre temas tortuosos e histéricos y a los distraídos pentagramas, inauténticos o narcisos, prefiero invitarte a acostarte para un breve viaje en mi compañía sobre una alfombra sonora de poético mutismo, y hacerte escuchar en la lectura silenciosa de tus procesos mentales, los escritos exuberantes de este diario Asiático o medieval que celebra potente los elementos extremos y complementarios de machos y hembras, blancos y negros, claros y oscuros, donde el lenguaje y los conceptos extraviados en el tiempo entre las diversas secciones de estos escritos tan llenos de lirismo, se entregan a sí mismos desnudos y sinceros entre los paradigmas de una gramática-niña, de una simetría rebuscada entre fonemas y sintagmas engarzados, entre las liberadas y todavía incompletas arquitecturas celestes. 

Los sonidos vocales e instrumentales entre las visiones acústicas y las relaciones analógicas con los vacíos y el blanco de las pausas y los lemas, entre el redundante léxico barroco y surrealista, como rayos repentinos entre las arenas claras y suaves, como sacudidas improvisas de sentido entre los prados verdes y serenos extendidos a superficies inmensas e impredecibles y a las suntuosas músicas volcánicas, ya son recuerdos de sonoridades arquetípicas o mesozoicas muy atrás en el tiempo. Y estas palabras y frases que para ti serán sin duda reflejo de algo, tal vez de un sentimiento enganchado en alguna metáfora, en algún misterio lejano, en una musicalidad al mismo tiempo dócil y provocadora, en una sinfonía espectral sin más frecuencias, en un coro mixto silencioso conformado por voces y nobles intenciones en las que la incivilización de una cultura descompuesta y apocalíptica ya se mide en álgebras y decibelios, entre geometrías experimentales y físicas cuánticas. Esta escritura en voz alta es música transformada en amor puro, en un infinito mar de palabras: un poema de música convertido en lenguaje, en el que las letras y los espacios se interrogan sobre historias y experiencias, sobre estadísticas presencias y eventos de cualquier olor, y donde el amor y los cuerpos eróticos se reúnen y celebran en luchas internas y orgasmos coloridos, entre los meros conflictos y abrazos sin cesar. 

Este poema sonoro es como un organismo frágil, con tramas delicadas o muy sofisticadas, en el que se produce un misterio para la más mínima cosa, una síntesis serena de sonidos y equilibrios, de fantasías y prosodias inteligentes, y poemas y sabores del pasado, de mecanismos universales e ingenierías celestes. Peculiares retratos existenciales que luminosos se delinean en este diario extático y larguísimo, en esta lista muy esotérica e impredecible de perfiles psicológicos y categorías de la mente o de comportamiento sobre vastos y turbios escenarios que quizá podrían ayudar a oler el mundo en toda su complejidad. Equilibrios muy precarios entre diversas construcciones y sílabas, entre sintaxis poéticas y signos viscerales y sintagmas un poco extrañas, se apoderan de mí que escribo al dictado por voces misteriosas y viajes oníricos sin metas ciertas y orígenes seguros, excavando hasta lo más profundo del alma, sugiriéndote cantos y copiosas sinfonías en las que letras y palabras, frases y párrafos y capítulos punzados, me revelan a mí mismo un universo frágil, un microcosmos débil que constituye el sentido supremo de modernidad y clasicismo, de poesía tradicional y de experimentos fascinantes entre libros y bibliotecas, entre las páginas y los estantes de un inventario amoroso, en donde lo único que importa, generando sentido y arco iris, es la poesía abierta hacia un cuerpo en movimiento y en el que el cerebro sólido y lleno de ironía se traslada por todas partes, entre neuronas y arterias, entre canales de pensamiento y nobilísimos sistemas. 

Continúa la búsqueda en el horizonte mágico de un hilo delgadísimo que une dimensiones y líneas paralelas entre sentimientos sólidos y precarias sensaciones de algo que ya no existe o que ya se ha extraviado. Y entonces la música poli rítmica entre los versos audaces y las complejidades entre las líneas de una lectura apasionada, las sinfonías micro tonales ahora ya sin más estilo o género, sin sintaxis inteligibles trágicamente implosionadas como agujeros negros entre los excesos tímbricos y los volúmenes exorbitantes de una época ya en declive, serán sólo recuerdos, sombras, ecos de una imagen indescifrable y demasiado lejana en el tiempo, como la lectura a primera vista, e incluso antes la escritura en código como deudas debidas hacia los significados más consistentes de nuestra comprometida y engañosa interioridad. 

Queda prohibida entonces cualquier fácil y predecible línea instrumental, toda melodía obvia y repetida, toda armonía trivial y orquestación digital que la electrónica sonora embandera moribunda e inexorable hacia las desapariciones programadas de cada ritual, mediante despedidas funéreas y abismos precedidos en tiempos y geografías oceánicos. Al diablo cada compromiso, cada espera aguantando una vez más cambios radicales. Anoto aquí en esta última hoja cada detalle de escucha en este papel denso y caprichoso, repescando los sonidos dispersos entre los pliegues de mi cuerpo y los escondites cerebrales de mi memoria desplomada, y le sigo aquí con la lectura lenta y razonada de los párrafos de este libro muy denso de paráfrasis y alegorías barrocas. 

Los sonidos acumulados como sombras sobre sombras y metáforas de experiencias afectivas, las secciones variopintas de palabras que nacen y mueren como meteoros de agosto, las sonoras y atentas simetrías entre los versos intencionales y manieristas, las caricias tiernas y elegantes, o las dagas por las espaldas y las traiciones, las crueldades verbales y los dibujos estructurales de una orquesta envolvente: todo desborda de música, sonetos y poemas, de arias y madrigales. Y entonces, un momento después de la lentísima lectura de la última palabra de este libro sin tiempo, los párrafos aquí ya leídos y por ti digeridos como sonidos de cuerdas musicales que han vibrado por horas y simpatía desde tu corazón cansado o esperanzado, se recompondrán ahora en tu vaga memoria como tema y variaciones musicales permanentes, como lista razonada de emociones recurrentes: un índice, es decir, de los diferentes tipos de amor, una taxonomía de perfiles sico-emocionales, una lista de eventos para una anatomía del alma amorosa o de una cartografía del corazón, una historiografía sentimental, un interminable catálogo de sonidos, un infinito catálogo de amor.